
Voglio mangiare Junk food! E se cibo spazzatura non fosse?
Indice
- Da Cracker Jack a Big Mac: l’ascesa del fast food
- Fast food e fantasia: l’alba del cibo spazzatura
- Quel richiamo universale delle patatine fritte
- Hamburger: icona della globalizzazione? Anche no!
- Il Junk Food e Io: una relazione (quasi) sana
C’è qualcosa di irresistibile nella croccantezza perfetta di una patatina appena fritta, nel sapore sfacciatamente dolce di una merendina confezionata o nel fascino decadente di un hamburger grondante di salse che sfidano ogni dieta. Eppure, questi piccoli piaceri vengono spesso bollati con un termine che sa di condanna: junk food, cioè “cibo spazzatura.” Non è un po’ ingiusto? Possibile che un panino imbottito o un sacchetto di patatine, capaci di rallegrare una giornata, meritino di essere ridotti a “spazzatura”? Forse, prima di giudicarli, dovremmo fare un passo indietro e scoprire cosa si cela dietro questa definizione. Quando ripenso ai nostri viaggi, quante volte i fast food, le catene sdoganate o i piccoli chioschi locali unti e bisunti, ci hanno salvato da fame e brontolii di stomaco? E se la sua irresistibilità fosse, in fondo, parte del suo fascino?
Sì, lo ammetto, sono una viaggiatrice che ama i mercati tradizionali e i piatti tipici, ma c’è qualcosa di unico nel mordere un burrito XXL comprato a mezzanotte in una stazione di servizio dell’Arizona o nel provare il famigerato “deep-fried everything” di una fiera americana. Il cibo spazzatura non è solo carburante per il corpo, è anche una finestra sulla cultura popolare, una narrazione di stratificazione sociale e innovazione culinaria, un po’ come il cibo di strada ma con più packaging e meno eco-credibilità. Forse è tempo di riconsiderare il nostro giudizio e guardare al junk food con uno sguardo meno snob e più curioso. Insomma, non è forse la quintessenza di certi viaggi epici? I miei sicuramente!
Da Cracker Jack a Big Mac: l’ascesa del fast food

Sebbene il termine junk food, sia stato coniato solo nel 1951, i cibi ipercalorici e poco salutari iniziarono a diffondersi negli Stati Uniti molto prima. Agli albori dell’Ottocento, l’alimentazione americana era semplice e genuina: cibi preparati in casa, ingredienti locali, stagionali, e non processati. Con l’avvento dell’industrializzazione, tuttavia, le abitudini alimentari iniziarono a cambiare rapidamente. Lo sviluppo di nuove tecnologie, l’urbanizzazione e il miglioramento dei trasporti allontanarono le persone dalle fattorie e diedero il via alla produzione in serie di alimenti economici, facili da conservare e pronti all’uso. Tra i principali “colpevoli” di questo cambiamento fu la farina bianca, che divenne sempre più accessibile e rappresentò la base per moltissimi prodotti poveri di fibre e ricchi di carboidrati.
Uno dei primi cibi spazzatura americani fu il Cracker Jack, una miscela dolce-salata di popcorn, melassa e arachidi, introdotta dai fratelli Frederick e Louis Rueckheim alla Fiera Mondiale di Chicago nel 1893. Sebbene la ricetta non fosse particolarmente innovativa, la genialità dei fratelli stava nel marketing: una confezione sigillata con cera per garantire freschezza e un premio in ogni scatola. Questo piccolo dettaglio accese l’immaginazione dei consumatori e trasformò il Cracker Jack nello snack più venduto al mondo entro il 1916. Era solo l’inizio: tra bevande a base di succo di frutta zuccherato, acqua gassata e acido citrico, gli antenati della Coca Cola e snack dolci o salati, la strada verso il junk food moderno era ormai tracciata.
Vi devo dire che i Cracker Jack non mi piacciono? Non posso farlo, la foto qui sopra mi tradisce. Ero appena tornata da NY dove ho riempito la valigia di “schifezze” per i miei amici a casa. Adoro quei pop corn e non me ne vergogno!
mangiare Junk food cibo spazzatura

Tornando a noi, il vero boom del cibo spazzatura arrivò negli anni ’50, un decennio che segnò un cambiamento radicale nelle abitudini alimentari degli americani. Grazie all’espansione delle città suburbane, al crescente uso delle automobili e alla nascita dei drive-in, il fast food divenne parte integrante della quotidianità. Catene come McDonald’s e Burger King trasformarono hamburger e patatine fritte in simboli della cultura popolare americana. Non si trattava più solo di sfamarsi, ma di vivere un’esperienza accessibile, veloce e uniforme in qualsiasi luogo. Gli alimenti industriali processati, altamente calorici e poveri di nutrienti, divennero così una parte dominante della dieta americana, segnando il passaggio da una cucina casalinga a una cultura dell’istantaneità.
E il termine Junk Food? Fu coniato nel 1951, ma solo nel 1972 il nutrizionista americano Michael F. Jacobson gli diede una definizione ufficiale: “cibi industriali, altamente processati, caratterizzati da un ridotto valore nutrizionale e da un’elevata presenza di calorie, colesterolo, grassi saturi, zucchero raffinato, sale e farina bianca, insieme a conservanti e additivi chimici.” Insomma, una descrizione che potrebbe tranquillamente sembrare l’etichetta di un qualsiasi snack al supermercato. Nonostante la loro cattiva reputazione, i cibi continuano ad essere amati e consumati in tutto il mondo. Ma come siamo arrivati a questo punto?
Forse la risposta sta proprio nella loro versatilità. Il cibo spazzatura non giudica: è disponibile per tutti, ovunque e in ogni momento. Ed è proprio questa promessa di comfort e accessibilità che, nel bene e nel male, ha reso il cibo spazzatura un fenomeno globale. Oggi, ci troviamo a un bivio tra demonizzazione e celebrazione. Da una parte, ci sono gli avvertimenti sui rischi per la salute; dall’altra, il fascino innegabile del sapore immediato e della nostalgia che ogni morso porta con sé. In fondo, il junk food è più di un semplice pasto: è un pezzo di storia americana, un simbolo di innovazione e globalizzazione che, con un cono di patatine o una lattina di soda, ci racconta quanto siamo cambiati o forse, quanto siamo rimasti gli stessi.
Fast food e fantasia: l’alba del cibo spazzatura

Ma chi iniziò a distribuire il cibo spazzatura? Per scoprirne le origini, dobbiamo nuovamente fare un salto indietro nel tempo, precisamente nel 1921, e approdare a Wichita, Kansas, una città che probabilmente non molti inseriranno nei propri itinerari di viaggio, se non fosse per un certo White Castle. È qui che tutto è iniziato: il primo ristorante White Castle aprì le sue porte offrendo hamburger a cinque centesimi l’uno, gli iconici slyders. Piccoli, economici e un po’ unticci, questi mini-panini conquistarono subito i cuori (e forse anche le arterie) degli americani. L’idea era geniale nella sua semplicità: cibo veloce, perfetto per la classe lavoratrice che aveva poco tempo, poche pretese culinarie e un grande appetito. Ricordate Poldo che in “Popeye” mangiava slyders a tutta randa?
Se si pensa che il White Castle è il nonno del fast food, allora prepariamoci a conoscere il bisnonno: A&W Restaurants, fondato nel 1919. Nato come chiosco di root beer in California, questo piccolo stand si trasformò presto nella più antica catena di fast food del mondo. A&W fu il primo a servire birra analcolica e hot dog con quella stessa formula magica che avrebbe reso il fast food un’istituzione: qualità media, prezzi bassi e un servizio abbastanza rapido da sembrare una rivoluzione. Da lì fu un attimo: gli anni ’20 e ’30 furono il terreno fertile per una vera e propria esplosione di catene simili. Gli americani, con la loro passione per tutto ciò che fosse pratico, iniziarono a rendere il fast food parte integrante del loro stile di vita.
Si stava creando qualcosa di più grande: non solo una nuova tipologia di ristorazione, ma un fenomeno culturale che avrebbe varcato i confini americani e, con un po’ di ketchup e patatine, conquistato il mondo intero.
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Ma torniamo a quei primi anni di gloria: il White Castle si distinse per l’idea, allora rivoluzionaria, di standardizzare tutto. Dalle porzioni al packaging, persino il design dei ristoranti, tutto era studiato per offrire un’esperienza identica in ogni punto vendita. E non dimentichiamo il marketing: chi può resistere a uno slogan che ti promette un hamburger perfetto per meno di quello che spendi per un giornale? Con l’arrivo di A&W e White Castle, il junk food iniziò a spianare la strada verso quello che sarebbe diventato un fenomeno globale. Oggi possiamo discutere sulla qualità della carne o sui rischi per la salute, ma è impossibile ignorare il genio dietro questi primi pionieri del fast food. Hanno preso un’esigenza – mangiare rapidamente e spendendo poco – e l’hanno trasformata in un’arte, con tanto di panini e root beer a fare da protagonisti.
Per chi si chiedesse cos’è la root beer ve lo spiego subito. E’ una bevanda analcolica dolce e frizzante, originaria del Nord America, ottenuta tradizionalmente dalla fermentazione delle radici di diverse piante, in particolare la radice di sassofrasso o di salsapariglia. La root beer ha un gusto unico, difficile da descrivere a chi non l’ha mai provata. È un mix di dolce, speziato e leggermente erbaceo, con sentori di vaniglia, liquirizia e cannella. Per certi versi, può ricordare vagamente il gusto del chinotto o della birra al ginger, ma con una sua personalità inconfondibile. Una curiosità interessante è che la root beer fu inizialmente commercializzata come una bevanda salutare e veniva spesso pubblicizzata come un tonico per migliorare la digestione o aumentare l’energia.
Oggi, la root beer è ancora un simbolo della cultura americana e un must per chiunque voglia assaggiare un pezzo di storia a stelle e strisce.
Quel richiamo universale delle patatine fritte

È difficile resistere al suono di una patatina croccante che si spezza tra i denti, seguita da quel sapore familiare, semplice e perfetto. Non importa dove ti trovi nel mondo, il richiamo delle patatine fritte è universale: un cono di carta in un mercato europeo, una porzione abbondante servita accanto a un hamburger in un fast food americano o una ciotola inaspettata su un tavolo in Asia. Forse le patatine sono il cibo spazzatura per eccellenza, ma c’è qualcosa di profondamente confortante in loro, come se ogni morso mi riportasse a un momento di pura semplicità. Sono ovunque, in ogni parte del globo, eppure allo stesso tempo, sembrano sempre essere “a casa”.
Le origini delle patatine fritte, però, sono avvolte nel mistero. Francesi o belgi? La diatriba su chi le abbia inventate va avanti da secoli, con entrambi i Paesi che rivendicano la paternità. Secondo la leggenda belga, i contadini del XVIII secolo tagliavano le patate a forma di pesce e le friggevano quando il fiume ghiacciava e il pesce fresco era introvabile. I francesi, invece, sostengono che siano nate nelle cucine eleganti dei ristoranti parigini, da cui poi presero il nome french fries. Ma, indipendentemente dalla loro origine, una cosa è certa: le patatine fritte hanno conquistato il mondo e continuano ad essere un simbolo di condivisione e convivialità.
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Nel mio girovagare, ho mangiato patatine praticamente ovunque, e indovinate un po’? Sono sempre le stesse, anche se il contorno cambia. In Belgio, servite in coni di carta e accompagnate da salse assurde, come la maionese piccante o una salsa all’aglio tanto forte da lasciarmi senza parole. Negli Stati Uniti, arrivano accompagnando ogni piatto, spesso in porzioni gigantesche. In Canada sono sommerse da formaggio fuso e le chiamano poutine. Le ho anche viste al peperoncino e persino con lo zucchero a velo (sì, è successo davvero!). In Asia, invece, mi è capitato di mangiarle condite con alghe o polvere di wasabi. Eppure, in fondo, è sempre la stessa patatina: croccante fuori, morbida dentro, perfettamente salata, capace di farmi sorridere anche nelle giornate più cupe.
Il vero colpo di genio, però, è stato quello degli americani. Con il loro talento innato per prendere qualsiasi cosa e trasformarla in un’icona globale, hanno fatto delle French Fries un simbolo del fast food e della modernità. La catena che ha guidato questa rivoluzione, inutile dirlo, è stata McDonald’s, che ha reso le patatine fritte una presenza inevitabile in ogni angolo del pianeta. La combinazione di sapore perfetto, confezione pratica e marketing accattivante le hanno rese irresistibili. Oggi, le patatine fritte non sono solo cibo: sono un’esperienza culturale, un simbolo di globalizzazione e, perché no, una piccola celebrazione della gioia, almeno per noi amanti del junk food.
Chiamatele come vi pare: pommes frites , poutine , french fries o chips, ma restano sempre il più democratico dei comfort food che alla fine finisce sempre nello stesso posto: al centro del tavolo, pronte ad essere condivise.
Hamburger: icona della globalizzazione? Anche no!

Mi trovavo a Malta, una sera gelida di febbraio, una di quelle in cui desideri solo infilarti nel primo locale disponibile, non tanto per mangiare, quanto per sfuggire al freddo che ti si insinua nelle ossa. Paolo era lì per un corso d’inglese di tre mesi, e durante una delle mie visite aveva deciso di portarmi a fare il classico aperitivo tanto in voga sull’isola. Io, però, non ero dell’umore per finger food e spritz annacquati. Volevo di più. Così, dopo aver vagato per le vie di Paceville, ci siamo ritrovati davanti ad un locale che sembrava più un giardino d’inverno che un ristorante. Un’illuminazione soffusa, piante che cadevano come tende dal soffitto e un’aria sofisticata che prometteva un’esperienza, più che un semplice pasto. La vera sorpresa? Quel luogo elegante cucinava solo hamburger. Hamburger gourmet, per essere precisi.
Ecco il paradosso dell’hamburger: da simbolo del fast food per eccellenza, capace di sfamare masse con pochi dollari, a protagonista delle cucine stellate. Ma è davvero cibo spazzatura? Oppure è un piccolo capolavoro di equilibrio tra sapori e consistenze? Pensiamoci: un hamburger è una tela bianca su cui ogni cultura può lasciare la sua impronta. In quel ristorante di Malta, il mio panino era un’opera d’arte: pane fatto in casa, leggermente dolce, una polpetta di manzo perfettamente cotta, formaggio locale che si scioglieva come burro, e una salsa alla senape e miele che bilanciava il tutto. Ogni morso era una scoperta. Non il semplice “junk food” che molti immaginano, ma una versione raffinata di un’idea che, nella sua essenza, resta sorprendentemente semplice.
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Ed è proprio qui che l’hamburger mostra il suo vero genio: la capacità di adattarsi. Lo puoi trovare come opzione economica in un fast food in strada, servito in una scatoletta di cartone con patatine fritte di contorno. Oppure puoi pagarlo dieci volte tanto in un ristorante gourmet, dove diventa protagonista di un piatto curato nei minimi dettagli, accompagnato da salse artigianali e contorni sofisticati. È un piatto camaleontico, capace di parlare a tutti, dal turista affamato al foodie più esigente. Forse, più che un semplice pasto, l’hamburger è un simbolo della globalizzazione. Unisce e divide allo stesso tempo: ogni cultura ne reinventa la ricetta, ma la sua anima resta inconfondibile.
Può essere il cibo degli adolescenti nel loro primo viaggio a Rimini, ma anche quello di una coppia che celebra un anniversario in un locale alla moda. Ed è questa duplicità a renderlo unico: un’icona trasversale che riesce a mettere d’accordo tutti, pur rimanendo fedele a se stesso. Paolo ed io lo abbiamo assaggiato con carne discutibile nei peggiori fast food di Los Angeles, ma anche con macinato scelto di pregiate vacche irlandesi e persino con carne di cervo nell’isola di Skye. È l’esempio perfetto di come un piatto possa attraversare ogni strato sociale, passando dai vassoi di plastica ai piatti in porcellana senza mai perdere la sua essenza. Per me, l’hamburger è il comfort food per eccellenza: rassicurante, familiare e sempre pronto a salvarmi nelle situazioni più imprevedibili.
Quando siamo in viaggio e non sappiamo cosa scegliere, Paolo ed io finiamo inevitabilmente per ricadere su di lui. Un hamburger è sempre la nostra personale salvezza cuninaria.
Il Junk Food e Io: una relazione (quasi) sana

Lo ammetto: quest’anno sono più polemica del solito. Sarà l’età, sarà la stanchezza, sarà che mi sono stufata di sentire i soliti discorsi moralisti sul cibo spazzatura. “Fa male”, “è pieno di calorie vuote”, “rovina la salute”. Sì, ok, tutto vero. Ma vogliamo parlarne in modo onesto? Se ogni tanto decido di concedermi un hamburger grondante di formaggio o un cono di patatine fritte che sembrano uscite dai sogni di un dietologo in crisi esistenziale, non credo che questo mi renda una persona cattiva. E nemmeno un caso disperato dal punto di vista nutrizionale.
Perché, diciamolo chiaro e tondo: il junk food se consumato con moderazione, è un’esplosione di sapori che un piatto di zucchine al vapore e tofu non potrà mai eguagliare. Oh, certo, il tofu è “sano”, “bilanciato”, “etico” e tutto il resto. Ma provate a chiedergli di regalarvi quell’emozione travolgente che vi dà il primo morso di un cheeseburger fumante. Non succede. Non può succedere. Il cibo spazzatura ha quella magia un po’ sporca e proibita che lo rende irresistibile. È il cibo che non chiede scusa, che non cerca di essere qualcosa di diverso. È il cibo che, per una volta, si prende il lusso di non dover piacere ai dietologi.

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E poi c’è questa retorica del “non è vero cibo”. Ma davvero? Io dico che è cibo, eccome se lo è. È il cibo della nostalgia, dei ricordi, dei viaggi in autostrada e delle pause pranzo frettolose nei bagni della scuola. È il cibo che si condivide al cinema o durante un picnic improvvisato. E’ il mio personale ricordo di una frugale cena nei sobborghi di L.A. dopo 20 ore di viaggio. La mia cena dell’8 dicembre a N.Y. E’ lo spuntino all’aeroporto di Londra mentre aspetto il cambio volo. Certo, non è qualcosa da mettere in tavola ogni giorno, a meno che non vogliate un biglietto di sola andata per il reparto di cardiologia, ma questo vale per qualsiasi cosa. Anche l’acqua è dannosa se ne bevete troppa.
Il punto è che demonizzare il cibo spazzatura è troppo facile. È comodo. È un bersaglio a portata di mano per chi vuole sentirsi moralmente superiore, mentre a fatica manda giù il suo frullato annacquato al cavolo nero. Ma sapete cosa? Io non ci sto. Voglio difendere il diritto a mangiare un sacchetto di patatine senza sentirmi colpevole, a tirare fuori dal freezer una pizza surgelata in quelle serate in cui non ho voglia di cucinare e a godermi un gelato confezionato perché sì, mi va. E sapete qual è la parte migliore? Lo faccio senza sentirmi in colpa.
Quindi, se siete tra quelli che puntano il dito contro il junk food come se fosse il male assoluto, prego, accomodatevi. Io, intanto, sono qui, con le dita un po’ unte di burro di arachidi e caramello, e non potrei essere più felice.
Articolo di Lara Uguccioni


Interessantissimo e ben documentato articolo, mi ritrovo in quanto hai scritto. A mio avviso con junk food si è voluto trovare un ingeneroso termine dispregiativo con scopo deterrente, io credo che tutte queste “schifezze” meglio sarebbe definirle per ciò che sono, comfort food alla portata di tutte le tasche, o quasi.
Riguardo agli hamburger made in USA ricordo di averne mangiati in diverse occasioni e ogni volta li ho trovati un buon pasto, da quelli “fast” dei vari Mc a quello mangiato al ristorante con coltello e forchetta con contorno di patate duchessa a quello che per me resta insuperabile mangiato a Sausalito in un locale grande quanto un loculo.
Anche io ne ho mangiato uno a Sausalito in un buchetto dove in vetrina c’era una piastra girevole con la signora che cuoceva (magari è lo stesso posto)! Una bontà unica! Mi fa piacere che qualcuno la pensa come me, infondo perchè chiamare il cibo con un termine dispregiativo, lo trovo un insulto al cibo stesso. Certo i vari Mc & c. non hanno qualità nel prodotto, ma in giro per il mondo ho mangiato ciò che si definisce junk food cucinati con materie prime ottime, ed era buonissimo 😉
Chiaramente la moderazione è fondamentale: tutto, effettivamente, può diventare tossico se si esagera anche se il cibo dei fast food, diciamo, che parte svantaggiato. La presenza massiccia di sale e zuccheri lo rende sicuramente più buono e invitante ma, ovviamente, non bisogna esagerare!
👍
Sai, non avevo mai sentito di White Castl né dei Cracker Jack! Quando si parla di Junk Food la prima cosa che viene in mente sono i fast food americani, ma anche i fratelli Rueckheim avevano visto lungo.
Comunque anche io mi concedo a volte del junk food quando ne ho voglia. Vuoi mettere le patatine fritte del burger king alle 2 di notte quando torni da un viaggio?
Esatto!! Demonizzare il cibo non lo trovo corretto, soprattutto pensando a chi non ce l’ha proprio. Ovvio che se si esagera anche mangiare 2 etti di pasta al giorno + pane e salame è scorretta alimentazione, quindi non vedo il perchè chiamarlo Junk. E’ più preoccupante che in Usa (ma anche qui da noi devo dire) non si tengano lezioni nelle scuole che parlino di alimentazione corretta. Dovrebbe diventare una materia nel piano scolastico a mio parere.
Condivido la moderazione è la chiave di tutto, un conto è mangiare costantemente cibo spazzatura e un altro trasgredire ogni tanto nell’occasione che si presenta, sebbene io mangio in modo salutare quando capita, e soprattutto in vacanza, assaporo qualunque cosa
In vacanza anche io….NO LIMITS!
Odio il termine cibo spazzatura. C’è cibo più o meno sano, ma a mio parere tutto il cibo va bene in determinate quantità e circostanze. La vita è una sola, se si è in salute, si fa esercizio e si mangia generalmente sano, perché non concedersi uno sfizio ogni tanto?
Esatto! Ma perchè chiamarlo SPAZZATURA?! Ma potrà mai il cibo essere immondizia?! Per me no!
Concordo assolutamente! Io normalmente mangio in modo abbastanza sano e proprio per questo mi gusto ogni boccone di cibo proibito con una gioia infantile!! E, a proposito di hamburger, ne ho mangiati a Ny degni di un ristorante stellato, carne di ottima qualità e pane indimenticabile
Quando sono fatti con prodotti di qualità gli hamburger sono eccezionali!
La tua opinione sul junke food è pari alla mia. La farina bianca ha infestato il mondo purtroppo, e difficilmente, nonostante tutte le attenzioni che giornalmente cerco di dedicare al cibo e alla cucina familiare, può essere bandita. Mi trovi d’accordo sul fatto che l’Hamburger può diventare davvero un piatto completo e sano, se preparato con criterio e con carne selezionata e allevata allo stato brado. Noi li facciamo spesso a casa. E’ la prima volta però che sento parlare di sassofrasso e salsapariglia. Devo approfondire!
La root beer è una bevanda gassata e dolce, preparata originariamente con l’aroma della radice o la corteccia del sassofrasso. Ora usano solo l’aroma perchè hanno capito essere leggermente cancerogeno. Con la salsapariglia invece facevano questa stessa bevanda ancor prima di chiamarla root beer, era il 1800 e le attribuirono addirittura proprietà mediche.