Zanzare sotto l’albero: il mio Natale (sudato) a Boipeba
Per chi è poco ironico e vedrà in questo articolo del disprezzo (come spesso accade quando si scrive qualcosa di “scomodo”), sappia che si sbaglia di grosso. L’isola è bella, vale la pena visitarla. La gente è cordiale e per fortuna, perchè ci hanno dato tanto conforto ed aiuto. La mia è pura ed intelligente ironia, anche se le cose che mi sono capitate sono ovviamente reali. Questa è una personale esperienza racchiusa in un racconto scherzoso, perchè è così che si affrontano le disavventure in viaggio: con un sorriso 🙂
Buona lettura! Lara
Viaggiare alla vigilia di Natale è una scelta audace, quasi un atto di ribellione contro l’ordine naturale delle cose. Mentre il resto del mondo è impegnato a scartare i regali, a contendersi l’ultimo panettone in offerta o a discutere sul giusto grado di cottura dei cappelletti, noi siamo in aeroporto, circondati da un’umanità assortita che ha deciso di sfuggire alle convenzioni natalizie. Ci sono i business traveler che fingono disinvoltura con il loro trolley perfettamente organizzato, i turisti last-minute con gli occhi ancora pieni di stupore per i prezzi impensabili dei duty-free e poi ci siamo noi, i viaggiatori di dicembre, quelli che hanno preferito le zanzare tropicali all’ennesima tombolata in famiglia.
Perché il Natale in viaggio ha il suo fascino, che è il costo ridotto del biglietto, ma ha anche quel brivido di incognita: nessuna certezza di un pasto caldo, nessun albero addobbato a garantire l’atmosfera e la concreta possibilità di trascorrere la mezzanotte con un panino triste in mano, mentre il display dei voli lampeggia minacciosamente con la scritta “ritardo”. Ecco, io tutto questo non l’avevo considerato quando ho detto sì agli amici entusiasti di partire proprio a Natale, convinti che gli aerei sarebbero stati mezzi vuoti ed i prezzi miracolosamente abbordabili. Eppure, eccomi in coda con altre trecento persone che hanno avuto la stessa geniale intuizione. Ma d’altronde, chissà cosa mi è passato per la testa. Io, che amo il Natale come un elfo sotto steroidi. Che mi emoziono per il primo nevischio sulla sabbia di Cattolica manco fossi in Lapponia.
Io, che a ottobre sono già in fase avanzata di vin brulé-dipendenza e considero le caldarroste un gruppo alimentare a sé stante. E invece no, quell’anno il mio spirito natalizio optò per zanzare giganti e umidità al 150%. Una decisione decisamente brillante.
Boipeba alone: sopravvivere al viaggio
Ovviamente, l’idea di un volo diretto non ha mai nemmeno sfiorato la mente di chi ci ha prenotato i biglietti. Troppo facile, troppo banale. Noi, viaggiatori avventurosi, avevamo davanti un itinerario degno di un film d’azione, ma senza effetti speciali e con molte più occhiaie. Dopo nove ore di volo, San Paulo ci accoglie con il suo aeroporto sterminato e un’attesa infinita che ci fa subito dubitare delle nostre scelte di vita. Tra un sonnellino scomodo su una sedia di plastica e un pasto aereo che ricorderò per sempre, ci prepariamo al secondo round: un nuovo decollo, stavolta verso Salvador. Un paio d’ore più tardi, l’atterraggio ci dà un’illusione di trionfo: peccato che la nostra meta finale fosse ancora lontana.
Il Brasile, si sa, è grande, ma in quel momento iniziava a sembrarci sterminato. E noi? Noi eravamo solo piccoli puntini di sudore e stanchezza, con gli zaini che sembravano diventati il doppio più pesanti. Paolo era ancora nel pieno delle sue forze, io arrancavo con una debolezza allo stomaco che oscillava tra il mal d’aria, la fame e il rimpianto di non aver mai fatto testamento. Non ci eravamo minimamente informati prima sul viaggio che ci aspettava una volta atterrati in Brasile. Nessuna ricerca, nessun piano dettagliato, solo un vago ottimismo da “ci penseremo strada facendo”. Peccato che la strada fosse infinita e piena di sorprese discutibili.
Natale a Boipeba
Dopo quella volta, vi dico solo che ora programmo ogni secondo della mia vacanza in anticipo, con una precisione che farebbe invidia alla NASA. Orari, mezzi di trasporto, possibili vie di fuga e snack di emergenza: nulla viene lasciato al caso. Perché l’avventura è bella, sì, ma solo quando sai esattamente quanto durerà.
Cambiare un solo autobus non è bastato: ore infinite su due bus strapieni di viaggiatori pendolari e famigliole che mangiavano farofa con le mani per pranzo. Posto a sedere per un pigmeo, dove io e il mio zaino stavamo per sposarci in un’unione forzata e ormai indissolubile. E per fortuna che i finestrini erano aperti, perché tra il caldo soffocante e l’odore misto di cibo e umanità stipata, l’asfissia era un’opzione concreta. Dopo ore di dossi fuoristrada e di inchiodate alla “guidiamo come se fossimo in un rally, ma con un bus pieno di passeggeri ignari”, arriviamo finalmente all’imbarco della lancia. Boipeba è un’isola su un arcipelago e per raggiungerla l’unica opzione è affidarsi a piccole barche a motoscafo che sfrecciano sull’acqua a una velocità da capogiro.
L’avventura mi ha fatto rivalutare ogni scelta di vita, costringendomi a recitare mentalmente tutte le preghiere che ho imparato a scuola dalle suore. Credo siano passate almeno 24 ore dall’inizio del viaggio, ma, a quel punto, il tempo aveva perso ogni significato. Mi sentivo come la Marini sull’Isola dei Famosi, ma apparentemente ero l’unica a percepire la devastazione fisica di un giorno intero senza sonno, con i riflessi ormai ridotti a quelli di una medusa sulla riva.
Natale a Boipeba
Nel frattempo, la lancia sfrecciava sulle acque salmastre dell’arcipelago di Cairu, sollevando schizzi d’acqua che puntualmente mi centravano in pieno viso, trasformando il mio trucco precario in un capolavoro impressionista. Il vento mi frustava i capelli con l’entusiasmo di un Edward Mani di Forbice, e ogni salto sulle onde mi ricordava dolorosamente che i muscoli esistono, anche quelli che ignoravo di avere. Dopo 45 minuti di navigazione spericolata, ecco finalmente avvicinarsi la riva. Per capirci, mi sono sentita come Tom Hanks in Cast Away, ma senza Wilson e con lo zaino al posto della zattera di fortuna. Sbarcata a terra, mi aspettava ancora un altro chilometro di cammino, ma santo cielo, ero viva.
Avevo superato aerei, bus sovraffollati, una lancia a motore lanciata a velocità improbabile e un’intera giornata senza sonno. Cosa poteva mai accadere ancora di peggio? Domanda ingenua. Perché se c’è una cosa che i viaggiatori sanno, è che quando pensi di aver toccato il fondo, c’è sempre un’altra esperienza pronta a dimostrarti il contrario.
Altro che baita di montagna: benvenuti nella giungla!
Era la sera di Natale, e dopo l’odissea tra terra, mare e cielo, l’unica cosa che desideravo era un letto. Oppure, a quel punto, anche una brandina, un’amaca, un mucchio di foglie secche. Qualunque cosa su cui svenire. E invece, come un miraggio nel deserto, ci aspettava tutt’altro: il vicino di casa dei nostri compagni di viaggio aveva apparecchiato una tavola perfetta, con tovaglia bianca in lino, stoviglie eleganti e, soprattutto, un piatto di tagliatelle fatte in casa con l’astice che brillava (sì brillava) come un tesoro sotto la luce fioca delle lampade. Credo di aver provato amore a prima vista per quell’attempato sconosciuto e singolare italiano, un espatriato con villetta vista foresta e doti culinarie da ristorante stellato.
In quel momento, tra la fame e l’emozione, quell’ometto abbronzato e vestito con una tunica arabeggiante, mi sembrava un’apparizione mistica, una sorta di Babbo Natale alternativo che invece di portare regali distribuiva carboidrati di qualità. Un vero eroe. La prima notte passò senza particolari insidie. Il che, ripensandoci, avrebbe dovuto insospettirmi: troppo facile, troppo tranquillo. Infatti, al mattino, ecco la rivelazione che avrebbe dato una svolta surreale alla nostra vacanza. “Non lo sapevamo, ma sta per arrivare nostra figlia con il suo compagno e starà qui due settimane. Ci dispiace, ma dovete lasciare il vostro alloggio e… troveremo un’alternativa, non vi preoccupate.”
Ora, non so voi, ma quando qualcuno mi dice “non vi preoccupate” il mio istinto è esattamente l’opposto di non preoccuparmi. E infatti, l’alternativa c’era: una stanza in un resort abbandonato sulla collina.
Natale a Boipeba
Facciamo un po’ di chiarezza. L’isola di Boipeba è attraversata al centro da una vasta collina che separa la parte abitata da quella più selvaggia. Questo ampio cumulo di terra è ricoperto dalla foresta tropicale, che, oltre ad una quantità imprecisata di vegetazione lussureggiante, dicono ospiti coccodrilli. Non so se me l’hanno detto per impressionarmi, ma sicuramente serpenti di specie non ben definite ci sono eccome e, per quanto ne sapevo, forse pure qualche creatura mitologica di cui non ero ancora a conoscenza. Ebbene, al tempo, l’isola – e praticamente tutto l’arcipelago – era stata presa d’assalto per le settimane di Natale e Capodanno, grazie all’evento che nessuno di noi aveva pensato di controllare prima di prenotare: il più grande rave d’America. Decine di migliaia di persone, techno sparata a volumi illegali e un’occupazione selvaggia di qualsiasi spazio vagamente abitabile.
Si deduce che ogni singolo buco con un tetto fosse stato prenotato con largo anticipo. Noi, ovviamente, non facevamo parte di questa lungimirante categoria di persone organizzate, dato che dovevamo soggiornare “a casa di amici”. E così, mentre gli altri festeggiavano, noi stavamo per trasferirci in un resort fantasma, nel bel mezzo della foresta tropicale. Ah, e senza neanche un braccialetto per entrare al rave. Detto così sembra un’avventura, ma vi assicuro che le avventure sono quelle di Peter Pan, di Alice nel Paese delle Meraviglie o del Gatto con gli Stivali. Non di certo una stanza nella soffitta di un resort abbandonato, dove la porta a vetri non aveva una serratura e nel bagno c’erano più rane che nello stagno delle principesse Disney, ma senza alcuna speranza di trasformarle in principi.
Natale a Boipeba
A interferire con l’idillio c’era la musica sparata tutta la notte, e no, non salsa e merengue, ma una martellante techno industriale che sembrava perforare direttamente il cervello. L’energia elettrica andava e veniva a causa del sovraccarico causato dal rave, regalandoci blackout improvvisi degni di un film horror. E come se non bastasse, la pompa dell’acqua aveva deciso di prendersi una vacanza proprio insieme a noi: niente doccia, niente capelli lavati, solo uno strato sempre più consistente di sale marino sulla pelle, che a quel punto non sapevo se definire un’esperienza esfoliante o un tentativo involontario di diventare una statua di sale in stile biblico. Le nostre giornate finivano praticamente al tramonto, quindi intorno alle 16:30, come se fossimo improvvisamente diventati anziani con il coprifuoco anticipato.
Ma il motivo era tutt’altro che rilassante: appena il sole iniziava a calare, dovevamo battere in ritirata e rincasarci nella foresta. Non perché fossimo diventati improvvisamente saggi, ma perché l’alternativa era vagare nel buio totale tra creature discutibili e sentieri inesistenti. Per raggiungere il nostro ameno rifugio nel resort abbandonato – che, per la cronaca oltre a noi, ospitava per le vacanze la famiglia del genio che aveva avuto l’idea brillante di costruirlo – c’erano due opzioni. La prima era un sentiero fatto di assi di legno che, dalla spiaggia, arrivava lì in circa dieci minuti di cammino. Peccato che per raggiungere quella spiaggia dal paese ci fossero chilometri di sabbia da attraversare, rigorosamente al buio, con serpenti appollaiati tutto il giorno sugli alberi come umarell tropicali, intenti a controllare il traffico umano.
Natale a Boipeba
L’altra via era direttamente dal paese: una salita ripidissima attraverso la collina, passando dietro una favela per poi immergersi nella foresta. Sentieri segnalati? Zero. Illuminazione pubblica? Figurati. Zanzare e insetti non ben identificati? Un esercito. In pratica, ogni sera dovevamo scegliere tra un pellegrinaggio nella sabbia con potenziale attacco ofidico o una scalata nella giungla con rischio di sparizione definitiva. Ovviamente la seconda era l’opzione migliore considerando che 15 minuti di sofferenza erano meglio della circumnavigazione dell’isola. Qualcosa però mi diceva che il mio spirito natalizio non aveva previsto tutto questo. Ero seriamente intenzionata a tornare in Italia dopo l’ennesimo attacco aria/terra di un esercito di insetti alle mie gambe, un assalto coordinato con la precisione di una strategia militare.
Se non ho avuto uno shock anafilattico, credo di essere ufficialmente immune a tutto, compreso il veleno di qualche creatura non ancora classificata dalla scienza. Volevo resistere, davvero. La mia indole intraprendente mi diceva di non mollare, anche quando dormivo con un occhio aperto come i delfini e un mobile strategicamente piazzato davanti alla porta d’ingresso, giusto per sicurezza. Ma dopo una settimana di vita nella foresta, il mio spirito d’avventura ha iniziato a vacillare. Le lacrime hanno avuto la meglio, seguite a ruota da una dissenteria fulminante che mi ha colpita con la violenza di una maledizione lanciata dalla strega di Biancaneve.
Natale a Boipeba
Solo che al posto della mela avvelenata, io avevo ingerito qualcosa di molto meno fiabesco e molto più letale per il mio apparato digerente. La vacanza che sarebbe dovuta essere romantica, si è rivelata un Hunger Games con elementi horror, ma una forte componente di autocontrollo emotivo. Eppure, contro ogni pronostico, Paolo ed io non ci siamo lasciati. Al tempo eravamo fidanzati da pochissimo e onestamente non so come il nostro giovane amore non sia crollato sotto il peso dell’umidità, della fame e della costante sensazione di essere nel posto sbagliato. Forse il vero miracolo natalizio è stato proprio quello: resistere alla convivenza forzata in una giungla infestata da zanzare mutanti e bagni senza neanche la porta.
Già, porta zero. Solo un vago senso di discrezione e la speranza che l’altro avesse la decenza di guardare altrove. Se il nostro rapporto ha superato questo, probabilmente potremmo sopravvivere a tutto.
Le ali della libertà
Passano i giorni e le settimane, Capodanno ormai era andato e il rave stava finalmente spegnendosi, lasciando dietro di sé solo silenzio, stanchezza e un vago odore di immondizia. La connessione internet continuava ad essere un miraggio, disponibile solo nel piccolo Internet Point al centro del villaggio, una sorta di santuario per disperati digitali come me, pronti a tutto pur di agganciare una misera tacca di segnale disponibile solo ad un PC che andava a manovella. Avete presente i vecchi modem che emettevano quel fastidioso bip-bip-screech mentre cercavano di connettersi a internet? Ecco, era esattamente quella la disperazione tecnologica in cui ero finita.
Erano giorni che studiavo un piano per scappare dalla giungla, come un evaso che scava un tunnel con un cucchiaio di plastica. E finalmente il momento era arrivato: Booking mi rivelava che una camera si era liberata in una pousada al centro della piazza. Una stanza vera. Un letto normale. Un bagno con una porta. Il mio momento di riscatto era finalmente giunto, la salvezza era vicina. In quel momento credo di essermi sentita come un naufrago che scorge una nave all’orizzonte, come Andy Dufresne in Le ali della libertà mentre alza le braccia sotto la pioggia dopo essere uscito dal tunnel dell’orrore. Ma soprattutto, come una persona che sta per riavere il diritto sacrosanto a una doccia decente e a notti di sonno senza il timore di essere divorata viva. E con la possibilità di accendere l’aria condizionata.
Natale a Boipeba
Per chi non ha mai vissuto in situazioni estreme, è difficile capire la felicità che ho provato entrando in quella camera senza finestra, con un bagno talmente stretto che per passarci dovevo inclinarmi di lato, tipo la camminata sul palco di Tina Turner. Il mio cuore si è spalancato come una rosa a maggio, in un’esplosione di gratitudine e commozione. E quando la proprietaria ci ha chiesto con un sorriso sdentato se la stanza andava bene, io avrei voluto abbracciarla, baciarla e magari intitolarle una piazza. Ok, non era il massimo, ma dopo settimane nella giungla, per me era più emozionante di una suite imperiale a Dubai. Anzi, se avessi trovato una mini saponetta sul lavandino, credo che sarei scoppiata in lacrime. E così è stato.
La vacanza è ovviamente passata tra altri mille intoppi. Sarei dovuta rimanere in Brasile per due mesi abbondanti, ma tra le vicissitudini vissute, la stanchezza che mi attanagliava e – dettaglio non trascurabile – una probabile epatite, dopo un mese ho alzato bandiera bianca con la dignità di un soldato fiero di essere sopravvissuto. Cambio volo, tre giorni a Salvador de Bahia per decomprimerci e tentare di tornare alla civiltà (leggasi: ritrovare acqua corrente e letti senza fauna selvatica), e poi via verso l’Italia. Ovviamente, anche l’ultimo viaggio non poteva essere privo di imprevisti: ci abbiamo messo tre giorni per tornare a casa, in un’odissea a San Paulo che meriterebbe un capitolo a parte. Ma questa è un’altra storia.
Racconto di viaggio di Lara Uguccioni
Natale a Boipeba
Natale a Boipeba Natale a Boipeba Natale a Boipeba
mamma mia che avventura! Io sinceramenete non credo che sarei resistita così tanto, penso che i nervi (ma anche il fisico) avrebbero ceduto ben prima. Praticamente un incubo. Per fortuna sono già stata in Brasile una volta, altrimenti dopo aver letto il tuo racconto non ci metterei più piede! 😛
Ahhahahah ma la mia è ironia Sara, ovviamente è tutto vero, ma chi viaggia tanto ha più possibilità di incorrere in disavventure!
Sei stata comunque in gamba ad aver affrontato un mese in questo incredibile luogo! Capisco benissimo la tua sensazione quando hai visto l’alloggio e le sue condizioni perché ho provato la stessa cosa quando ho visitato il Madagascar e so che sarà lo stesso per il mio prossimo viaggio in Uganda!
Mi è sembrato brutto ridere delle tue disavventure, ma le hai raccontate in modo talmente divertente! Immagino che dopo quella esperienza, i vostri Natali li avete trascorsi rigorosamente a casa.
Siiiiii Marina esattamente! Devo avere una maledizione sulla testa che vuole che il giorno di Natale io debba essere a casa davanti ad un piatto di cappelletti 🤣🤣🤣🤣
Mi sa che il prossimo Natale lo passi a casa! Mamma mia quante disavventure, io ho passato solo un Natale all’estero e ddevo dirti che preferisco la tradizione e farlo a casa con i famigliari poi dal giorno dopo si può partire ma studiando tutto nei minimi particolari, sono un pò maniacale su questo. In Brasile ci sono stata due volte e a me era piaciuto tantissimo per cui sono convinta che comunque ti lascerà anche belle sensazioni
Anche io Arianna sono stata in Brasile più di una volta, ma quella volta lì… è andato tutto storto. Ovviamente il mio articolo è ironico, anche se quello che ho scritto è tutto vero!😂